La terapia di gruppo di Zerocalcare

Ho rivisto la serie di Calcare 3 volte, la prima tutta d’un fiato, un venerdì sera stanco e autunnale; poi a mozzichetti, un poco alla volta, come se volessi assaporare intensamente gli ingredienti singoli di un piatto che, la prima volta che l’ho assaggiato, mi era esploso in bocca, facendomi provare, in una deflagrazione psichedelica, ritmata e nello stesso tempo semplicissima, qualcosa di unico.

In quell’ora e mezza c’è davvero un universo.
Di emozioni, di storie, di dissenso, di protesta sociale, ci sono le punte più alte e quelle più basse dell’essere unamo. C’è qualcosa di grandissimo, nella legittimazione del disagio dei giovani adulti di oggi, un disagio che Calcare rende universale, permettendo ad ogni trentenne di sentire che non è il solo a sentirsi in quel modo, a non sapere dove mettersi e a fare che.

In 6 pezzetti di 20 minuti, c’è la denuncia delle promesse non mantenute, urlata dallo schermo di un cellulare in quel “chi è felice è complice”; perché se sei felice vuol dire che hai chiuso gli occhi su un disastro storico-socio-culturale globale e vivi in superficie, scollato da una realtà ingombrante.

E più di tutto, c’è una generazione (forse 2) che cammina su un filo, in equilibrio precario tra ciò che è e ciò che avrebbe dovuto essere, tra paura e speranza, tra paralisi e voglia di continuare a strappare, qualunque sia la direzione, qualunque sia il costo, oltre la morte; perché per vivere, comunque, devi – continuare – a strappare -.

La verità è che la serie di Calcare è come una specie di immensa seduta psicoterapeutica di gruppo. Chi se lo è potuto permettere – oltre le banali resistenze e la futilità superficiale del romanaccio, in differita, ognuno a casa propria, dal proprio divano – si è trovato parte di qualcosa di più grande, in un sentire collettivo un po’ catartico che, in un modo o nell’altro, ci ha fatto sentire tutti più vicini.

E di questi tempi, mi sembra una cosa di una potenza straordinaria.

(Immagini dal web)

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